TESTI

LO SPETTACOLO DELL’INCONSCIO
Testo di Lorenzo Vivarelli

Presentare un giovane artista significa, preliminarmente, segnare i confini spazio-temporali delle sue creazioni e rintracciarne possibili ascendenze di tipo formale.
Del resto, questo atto di “ricerca del modello” è un’operazione automatica che i critici e gli storici dell’arte compiono per tentare un’analisi delle opere delle quali si trovano a dover disquisire. Ma ispirarsi ad un modello, o riproporne alcuni stilemi, non significa sposarne le tesi e il contesto che li ha prodotti. E’ il caso di Orio Gèleng, artista facilmente assimilabile a correnti e personaggi icone di stagioni passate, dotato però di una sensibilità artistica autonoma che ha la forza per essere considerata del tutto originale.
Sembra infatti naturale, scontrandosi con il corpus delle opere presentate in questa monografia, avvicinare la giovane produzione di Gèleng al grande magma del movimento “Informale” italiano: giustapposizione materica, germinale e spesso nucleica dei pigmenti che fu di Afro Basaldella, Emilio Vedova, Mattia Moreni, Giuseppe Santomaso e di tutti gli interpreti del famoso “Gruppo degli Otto” che Lionello Venturi definì “Astratto-Concreto”. Ecco il primo e istintivo valido ancoraggio visivo che questa produzione richiama.


Eppure, sempre negli stessi dipinti, si possono ritrovare le particolarità di quell’espressionismo astratto Nord Europeo postbellico definito “Gruppo COBRA”, i cui massimi rappresentanti furono, tra gli altri, Pierre Alechinsky, Karel Appel, Asger Jorn: densità del colore, forza del messaggio comunicativo, impeto creativo, forme animali cariche di mistero.
Già quelli proposti sono mondi in parziale conflitto tra loro. Ma la situazione si complica quando, nelle stesse opere, si scopre che vivono esseri emergenti dal colore, richiami a figure primitive spersonalizzate che, nella New York degli anni Ottanta, avrebbe potuto schizzare l’estro creativo di Jean-Michel Basquiat.
Senza dubbio questi echi possono sì incrementare il valore in sè della produzione di Orio Gèleng ma, di sicuro, ne bloccano la scoperta del vero portato comunicativo.
Nel Cosmo-Caos di Orio si muovono figure primordiali, lampi di luce e granelli di materia sognata. Lui dipinge, gratta, toglie colore. Le opere sono immerse in un costante divenire e si manifestano e continuamente si modificano sulla tavola traducendo i movimenti del suo immaginario creativo.
Nella materia colorata ancora fresca, Orio appoggia la coda del suo pennello e, con un gesto continuo, asporta il pigmento fino a creare graffiti preistorici, forme “ancestrali” appena sbozzate, contorni di figure interiori che hanno solo in parte associazione diretta con esperienze visibili, ma che esprimono la legge e la passione degli organismi viventi.

Scavare la parte più interna del suo essere artista, significa scomodare ere perse nella notte della Terra: l’età dei dinosauri, dei predatori e delle prede, quella dei meteoriti e delle costellazioni in formazione alla ricerca del suo “Universo Neonato”.
Con la lama del suo taglierino, Orio Gèleng incide strati superflui di materia e si stupisce della scoperta del colore sottostante. Poi guarda intensamente l’opera, la scruta a distanza. Di nuovo si alza e la modifica.
In questi scatti creativi misti a silenzi e contemplazioni dei suoi lavori sta il “ritmo cardiaco” di Orio Gèleng e, non a caso, proprio la parola “ritmo” compare in più titoli delle sue opere: la cadenza dei battiti delle forme e dei toni, quella esterna degli istanti della creazione, quella interiore delle emozioni.
Il risultato è un equilibrio tra colore e luce di grande intensità emotiva che si esprime con forza nei quadri di piccole dimensioni, veri e propri racconti autonomi, e non perde di lirismo quando la superficie pittorica si fa vasta.
Si può affermare, pertanto, che la personalità artistica di Orio Gèleng stia nella ricostruzione del suo mondo interiore. Del resto, lo diceva Alain Resnais: “Anche l’inconscio è spettacolo, forse il più importante”.

Lorenzo Vivarelli
vivarelli.lorenzo@gmail.com
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Domenico Guzzi
“Ho l’impressione che sia più giusto, anziché “dettare” una presentazione nel senso classico del termine, e in ragione del fatto che quel che si scrive è per un giovane alla sua prima esperienza di “personale”; sia maggiormente opportuno, si diceva, buttar giù alcune riflessioni a voce alta sul significato della pittura. E ciò, a non voler dare un “insegnamento” – che non è davvero questa l’intenzione – ma per verificare talune posizioni e talune intuizioni.

Ho sempre ritenuto, e ritengo tuttora, che far pittura voglia dire porsi alla ricerca di un equilibrio “veduto” e “pensato”. Il che essenzialmente afferma che non c’è un’immagine pittorica, foss’anche la più trasgressiva o quella considerata la più “istintuale” la quale possa prescindere da una meditazione profonda tra certo “esterno” – e dovrà, subito, chiarirsi che con tale termine non si vuole esclusivamente significare il mondo dei fenomeni – e certo pensiero che se ne ricava. Consentendo, ed anzi sollecitando, la funzione critica della coscienza.

Pittura, allora, è avere coscienza. Di che cosa?

Di quel che abbiamo detto “esterno”, da un lato e di quel che, propriamente, è il processo del “fare”, dall’altro. Si torna, per via della coscienza, appunto, all’equilibrio. Per il quale deve sempre tenersi a mente che un dipinto non è maie non è solo il render palese una pulsione dei sensi ma il tentativo di far convivere tale “pulsione” in un rapporto armonico che davvero non prescinda dagli interni equilibri dell’esito estetico. Il pittore è un curioso “animale” che, per istinto a volte, sembrerebbe giungere alle conclusioni. Ma questo istinto, andando poi a verificarlo con attenzione e con metodo scientifico, si rivelerà, non di rado, come “sedimentazione” di un qualcosa che, sia pur distrattamente, si è avuto sott’occhio. Ragione che conduce allo svelamento delle memorie storiche ad esempio.

Allo stesso modo, e insistendo: perché un’opera non abbia a testimoniare flessioni o possibili svilimenti d’una sua parte, è essenziale che la coscienza sappia misurare, come sui piatti di una bilancia, proprio gli equilibri. Le corrispondenze formali e cromatiche, i toni, i timbri, i segni e quanto altro costituisce l’interna ed esterna ossatura d’una “ipotesi pittorica”.

Bene, tutto ciò detto, mi sembra che il giovane Orio Geleng la sappia, a volte a dispetto della propria età, sin troppo lunga. Sappia con esattezza, insomma, che dipingere un quadro – al di là di un preciso significato iconico, come fa da qualche tempo – voglia propriamente significare mettere in gioco, con quell’immediatezza che sembrerebbe escludere ogni riflessione ma che tuttavia non vi prescinde, il suo “sapere”. Dando vita a dipinti che testimoniano una “sapienza” di costruzione, di correlazioni, di giustapposizioni, di coniugazioni sul piano e sul profondo, di corrispondenze, insomma, di ascendenza tanto cromatica – si vedono taluni “arancio” in un’amalgama di marrone, certi verdi o rossi a tirar su come squilli una tensione cromatica altrimenti impostata, e così via -, quando formale – sia veda come certe “forme” che attua prima non si direbbero in sintonia con le altre alla fine viceversa lo siano -.

Quindi, a chiudere. Se questa è la strada imboccata, buon viaggio: ma attenzione a mantenere la rotta, che, ritenendo d’esser giunti ad una “conclusione” mentre la pittura non ammette conclusioni poiché di opera in opera è un cammino “in progress”, può non esser difficile perdere o semplicemente smarrire.”

Domenico Guzzi, gennaio 2004


Costanzo Costantini
“Di certo, le sue prime opere sono sorprendenti. Non si sa se per effetto della tradizione familiare – ossia di quella dinastia di pittori che annovera il mitico Otto, il seducente paesaggista, l’eccelso ritrattista mai sufficientemente rimpianto Rinaldo e il singolare costruttore di quadri tra il metafisico e il surreale che è Giuliano, il padre -, se come frutto della scuola, o per innato talento.

Si direbbe, soprattutto, per quest’ultima ragione. Il talento c’è, senza alcun dubbio. I suoi quadri lo rivelano perentoriamente. Osservandoli non viene per nulla in mente che sono i quadri di un esordiente, al primo anno dell’Accademia di Belle Arti. Ben fatti, gran senso del colore e della luce, padronanza dello spazio, trasparenza e profondità. Più che composizioni, per usare un termine un po’ desueto, li si potrebbe definire visioni, o proiezioni immaginarie di un giovane destinato a far parlar di sé.

Ed è un grande piacere salutarne l’esordio con ogni possibile augurio.”

Costanzo Costantini, gennaio 2004